Le alluvioni che hanno colpito l’Emilia-Romagna nel mese di maggio hanno causato 15 vittime, 32mila sfollati, e un quantitativo di danni enorme, che secondo le ultime stime tocca gli 8 miliardi. Ci vorranno anni per ricostruire. E oggi si discute già delle possibili “colpe” nella gestione del territorio, in una prospettiva che dovrà cambiare per il futuro. Ma prima di arrivare alla questione infrastrutturale e dei cambiamenti da apportare al sistema, bisogna avere ben chiare le cause meteorologiche, per capire bene cosa è successo, come è successo e se potrà succedere ancora. Ne abbiamo parlato con Carlo Cacciamani, direttore dell’Agenzia Italia Meteo.
In Emilia-Romagna nel mese di maggio sono avvenute due alluvioni dalla portata straordinaria. Da quali fenomeni meteo sono stati causati?
Abbiamo avuto due perturbazioni che si sono succedute, legate a situazioni di bassa pressione, che hanno fatto affluire aria umida dall’Adriatico. Immaginiamo un vortice che, dal mare, convoglia aria da sud verso l’Emilia-Romagna. In più c’è stato un effetto stau, determinato dall’interazione della massa d’aria con l’Appennino, con la conseguenza che le precipitazioni sono avvenute sopravento all’Appennino. In tale situazione in genere piove parecchio in Emilia-Romagna. Il primo evento si è verificato all’inizio di maggio, il secondo, con quantitativi paragonabili al primo, nei giorni 15,16 e 17. Sommando i due eventi, in alcuni punti sono stati superati i 600 mm, valore che rappresenta un record per il mese di maggio. Solo nel 1939 abbiamo avuto una situazione analoga, con la differenza però che in tale evento del 2023 la precipitazione è accaduta in pochi giorni e non nell’intero mese di maggio, come in quell’anno. Pertanto si può certamente parlare di evento eccezionale.
Oltre alla quantità di precipitazioni, sono state altre le caratteristiche eccezionali dell’evento?
L’altra caratteristica dell’evento è che l’area interessata è stata molto ampia, a differenza per esempio di quanto accaduto nel settembre 2022 nelle Marche, dove furono interessati dalla precipitazione molto intensa solo pochi comuni e per tempi molto più ristretti (7-8 ore) rispetto a quanto accaduto il mese scorso in Romagna. Nel caso delle Marche la precipitazione è stata soprattutto a carattere convettivo, con associata attività temporalesca che è rimasta stazionaria in piccole aree geografiche; in Emilia-Romagna invece non c’è stata troppa convezione, si è trattato al contrario di una precipitazione di più ampia scala quasi “novembrina”. Un altro aspetto da considerare è sicuramente che la prima ondata di maltempo si è abbattuta su un territorio abbastanza secco, a causa di una condizione di siccità che durava da molto tempo, e quindi non in grado di assorbire in maniera troppo efficiente la precipitazione. Per questo motivo la grande quantità di pioggia caduta anche solo nel primo evento ha determinato danni connessi a esondazioni fluviali su alcuni bacini. Successivamente non è piovuto per alcuni giorni ma il terreno non ha fatto in tempo ad asciugarsi, rimanendo ancora pressoché saturo. Pertanto la seconda ondata di maltempo, con le conseguenti precipitazioni, è arrivata su un terreno molto umido, avente scarsa capacità di assorbimento, e quindi la pioggia è finita quasi tutta nei fiumi.
Le caratteristiche dei fiumi del territorio hanno influito?
Un ulteriore aspetto di cui tener conto è che i fiumi in quella zona sono a carattere torrentizio, non sono il Po, e hanno tempi di corrivazione anche molto brevi: il risultato è stato che i livelli idrometrici dei fiumi sono saliti in tempi estremamente rapidi, interessando per molto tempo le arginature che in diversi tratti hanno avuto cedimenti. E voglio sottolineare che questa situazione, in cui tutti i bacini romagnoli sono esondati, nella mia vita professionale di quasi 40 anni oramai, non l’avevo mai vista.
Come influirà questa alluvione sul futuro della gestione del territorio?
L’evento è stato eccezionale sia dal punto di vista della precipitazione, sia della risposta idrologica. Poi, come tutti sanno, i danni accadono non soltanto a causa di eventi meteo-idrologici importanti, ma anche perché i territori sono vulnerabili e molto esposti al rischio. La vulnerabilità è legata non solo alla natura, ma anche al fatto che l’uomo, per poter utilizzare quelle terre “basse”, ha dovuto confinare i fiumi all’interno di arginature. Quei territori sono come dei “catini” dove l’acqua può facilmente ristagnare, ed è necessario farla risalire, per così dire, affinché possa raggiungere il mare. Si tratta, in molti casi, di territori sottratti al mare, al fine di renderli abitabili e poter creare lavoro e conseguentemente ricchezza. La necessità di rendere tali aree utilizzabili e allo stesso tempo mantenere un’elevata sicurezza idraulica è cosa complessa da ottenere, e i cambiamenti climatici rendono ancora più arduo il raggiungimento di questo doppio scopo. È un tema su cui nei prossimi anni dovremo sempre più interrogarci e trovare soluzioni.
Fonte: Il Giornale Della Protezione Civile – Giovanni Peparello
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